venerdì 29 maggio 2009

Un simpatico regaluccio

Grazie a Facebook, abbiamo ritrovato l'amico C, con somma gioia e gaudio da parte nostra, dato che lo credevamo perduto per sempre nelle nebbie del nord.
L'amico C è un simpatico spilungone trentenne, single, perfetto casalingo. In questi cinque anni ha imparato a far da mangiare in maniera sublime ed è diventato un maniaco dell'ordine e della pulizia. Ha una magnifica casa ordinatissima, fa bucati perfetti ed impeccabili, si stira in maniera maniacale le magliette e non perde un capello manco a tirarglielo con le pinzette da ciglia.
Quindi diciamo che questo potrebbe anche essere un messaggio promozionale: lettrici single del mio blog, fateci un pensierino.
Fine del messaggio promozionale.

L'amico C ha pensato bene di approfittare del primo ponte disponibile per venirci a trovare. Il Nano lo ha adorato da subito, ed ha provveduto a ribattezzarlo Cristo, giusto per creare quel sottofondo musicale di preoccupazione andante per il suo avvenire ormai certo di alto prelato vaticanense.
L'amico C ha pensato bene di rimpinguare l'arsenale di giocattoli con rottura di coglioni incorporata già in nostro possesso con un cadeau che ci ha fatto rabbrividire lungamente: è finalmente approdato in casa nostra il temutissimo Coso Giallo, sotto forma di tenero e morbido pupazzo.
"Ce l'avevamo già, però" afferma sgomenta Lupina, omettendo di dire che l'altro Coso Giallo è stato prima investito con la macchina, poi dato in pasto al pit bull dei vicini.
"Ma questo è particolare: è interattivo!" esclama gioioso l'amico Cristo.
Sticazzi, pensa allarmata Lupina.

E così fu.
Il Nano ha giocato per 24 ore quasi ininterrotte con questo coso informe che canta Sono un bell'orsetto/cicciotto ma perfetto/ ciondoloooo/dondoloooo/ mi trovo giù per terraaaa.
E mio figlio, scellerato, gli risponde.
Coso Giallo: Ciao amico, mi abbracci per favore?
Nano: Non posso, ola guaddo i cartùn
Coso Giallo: Facciamo un gioco?
Nano: T'ho detto di no!
Coso Giallo: Facciamo un gioco?
Nano: Ola no. Che gioco?
Coso Giallo: Facciamo un gioco?
Nano: Che gioco?
Coso Giallo: Ciao amico, fammi il solletico al pancino!
Nano: Nooo, ola vollio fale un gioco!
Coso Giallo: Facciamo un gioco?
Nano: OOOOOH, allola???
Coso Giallo: Sono un orsetto/che ama il vento/se mangio il miele/sono contento
Nano: Ma non è gioco, è cansone!
Coso Giallo: Facciamo un gioco? Mi stringi forte?
Nano (spazientito): No, ola ti picchio con la tlomba!
E afferrando una tromba di plastica, lo riempie di mazzate fino a che il Coso Giallo non resta a terra esanime
Ma dopo qualche minuto..
Coso Giallo: ...Facciamo un gioco?

Il Nano adesso dorme il sonno del giusto, il Coso Giallo invece no.
Ha deciso che deve cantare e svenire sul fianco, per poi ritirarsi su e ricominciare a cantare.
Che poi non ha neanche una brutta voce, solo che il repertorio non è abbastanza vario e forse forse preferivo il povero Mino Reitano, che cantava una canzone sola ma almeno con grande partecipazione e sentimento. Invece questo canta a casaccio, il testo fa schifo e soprattutto dice frasi insensate e poi sviene. E poi si ripiglia. E ricomincia.
Non riesco a trovare lo sportellino delle pile.

Adesso vado ad informarmi sulla salute psicofisica del pit bull dei vicini, sia mai che si sente un po' solo...

mercoledì 27 maggio 2009

TACC

Oddio, oddio, oddio.

Avevamo perso per via i Peppi, non so se qualcuno di voi ricorda. E francamente, considerando l'enorme angoscia linguistica in cui ci hanno lanciati, non ne abbiamo sentito troppo la mancanza.
Anzi, io madre orgogliosa di Nano possessore di una certa capacità linguistica, li avevo relegati tra quelle storielle che si raccontano per mettere in imbarazzo i bambini quando crescono (sì, dai, quelle cose carine che i genitori raccontano agli amici a tavola il giorno della tua comunione, oppure alla grande riunione di famiglia per Natale (ti ricordi quando la Fulvia si cacò addosso all'ipercoop? e cose del genere, un toccasana per l'autostima dei pargoli).
Insomma, i Peppi si erano volatilizzati nell'etere, e noi si stava dimolto ma dimolto bene.

Fino a quando...

Che fino a quando, ma che cacchio sto scrivendo. Fino a STASERA.

Il Nano mangiava tranquillo al suo tavolinetto da scapolo. I riccioli castani gli adornavano il volto, gli occhi socchiusi sorridevano vaghi, in una di quelle espressioni sognanti da cherubino caravaggesco davanti alle quali io e il Gig proviamo dei veri e propri moti di commozione, che se non fosse che abbiamo la verve di due cenci bagnati, ci si metterebbe d'impegno a produrre un milione di Nani solo per averne uno uguale.
Ad un certo punto l'angelo bellissimo di bontà alza il capino e declama: "Vollio TACC!"
Un soffio di terrore ci attanaglia. Deglutiamo all'unisono.

Tento timidamente: "Amore, vai a prenderli da solo"
Lui si alza, si dirige verso un punto della cucina, comincia a frugare nella cesta dei biscotti montessoriani (cioè, non è che esistano dei biscotti montessoriani, diciamo che sono biscotti normali messi ad altezza nano, così che si possa strafogare in santa pace ed accumulare adipe precocemente, così come da tradizione squisitamente familiare), e poi decreta: "TACC 'un c'è. Vollio TACC!"
Il Gig azzarda: "Le Tic Tac?"
Il Nano gli lancia uno di quegli sguardi che farebbero cascare le mutande alla Hunziker e le forerebbero pure il pallone. "Noooo, quelle sono CABALELLE! Io vollio TACC"
Ossignore. Aiuto.
Chiamo mia madre con l'interfono, dato che si è pregiata di tenerci il Nano per quattro lunghissimi meravigliosissimi giorni di fuga romantica, sia mai che TACC siano arrivati mentre noi eravamo in tutt'altre faccende affaccendati.
"Passamelo un attimo", mi fa.
E li sento confabulare al telefono per qualche secondo.
"Portamelo giù, so cosa sono i TACC" dichiara Nonna Ansia in modalità psicologa infantile.

Dopo dieci minuti, mia madre mi richiama. Il sottofondo musicale della chiamata sembra un brano di Luciano Berio, ma se si ascolta bene è in realtà un pianto modulato di voce nanesca in falsetto, che pronuncia ad libitum la frase vollio TACC! vollio TACC!
"L'ho portato davanti alla credenza, ed ho aperto tutti gli sportelli. Gli ho chiesto: sono qui i TACC? e lui NO. Ho aperto anche il frigo e il cassetto dove tengo lo spago, gli ho fatto vedere tutti i sottopentola, gli ho dato le mollette per chiudere i pacchi di pasta, ma lui è ancora qua che piange e chiede i TACC. Gli ho aperto persino la scarpiera."
"Mamma, la scarpiera? Ma TACC è una cosa che si mangia, mi sembra ovvio!"
"Eh lo so, ma magari TACC voleva dire TACCHI..."

Finisce che me lo riporto su coi lacrimoni, e per fortuna che ci sono le lucciole di questi tempi, perchè è solo grazie alla morte di alcune di loro (Signore, pietà! Cristo, pietà!) che il Nano riacquista il buonumore e dimentica definitivamente i TACC.

I TACC vengono archiviati.

Peccato che non appena rimettiamo piede in casa, il Gig pensando di fare cosa buona e giusta, con voce carica di tutto l'amore paterno del mondo chieda al Nano: "E allora? Li abbiamo trovati alla fine questi TACC?"

E' stato messo a letto in condizioni pietose, ho dovuto scaricare tutto il contenuto dei cestoni dei giocattoli nei nostri letti, col risultato che domattina ci sveglieremo con tanti bei cofani di macchinine stampigliati sul deretano.

I Peppi son tornati sotto forma di TACC, e più incazzati che mai.
Prevedo giorni bui.

lunedì 25 maggio 2009

Compagni di viaggio. Cinque anni dopo.

Era da tanto che avevo questo buchetto nel cuore. Da cinque anni sentivo lo spiffero uscire, sapevo che ci saremmo dovuti tornare, prima o poi.




Siamo planati sulla piana veneta infinita esattamente come l'avevamo lasciata: da fidanzatini snanati (entrambi senza fede per l'occasione), con un'utilitaria risparmiosa, con pochissime cose dietro, giusto una valigia con l'indispensabile. E forse manco quello.


La piana è più o meno la stessa: qualche vigneto, un paio di ipermercati, capannoni-capannoni-capannoni, di nuovo vigneto, qualche trattore guidato da un omino minuscolo, pochi alberi e una gran calura. Quasi un plastico del Subbuteo.


Che poi questa pianura ti assassina l'anima. Specie d'estate, quando i filari si rincorrono a picco sotto il sole, e non hai neanche il conforto di un albero, ma solo quegli stecchi col pennacchio, piantati a distanza regolare, che non fanno ombra manco a piangere. E se cammini per la campagna, come qualche volta ho fatto io per riuscire a capire cosa provasse Goffredo Parise quando scriveva quelle belle pagine, ti rendi conto finalmente che la terra è tonda, e ti stupisci a pensare di che teste a pinolo sono stati gli abitanti del mondo a non accorgersene. C'è voluto un genovese con tre caravelle e un gran trabagai di roba per capirlo, e invece bastava dare un'occhiata a certe pianure sotto il sole, per capire che ad un certo punto tutto digrada dolcemente, che non c'è spigolo alla fine, ma ancora superficie.


Su questa superficie ho camminato per lungo tempo, fino a cinque anni fa.


Eravamo partiti animati dalle migliori intenzioni, scappando da una Torino che ci avvelenava coi suoi miasmi. Era l'estate del 2003.


Non avevamo nulla. Neanche il letto. Ma dormire sul pavimento di marmo della nostra casa, in quell'estate di caldo folle e di blackout non ci dava più di tanto fastidio. Il gelo delle mattonelle era la nostra consolazione.


Sono tante le cose che ho infilato in un baule, molte meno di quelle che si affastellano nella mia mente l'una sull'altra, come fascicoli di un'enciclopedia: il furgone che ci avevano prestato per il trasloco, con le sue tendine rosse a pois che davano un po' troppo nell'occhio, tanto che la polizia ci fermava di continuo scambiandoci per zingari; i viaggi fatti sotto il sole, con una radio che mangiava le cassette e contro la quale bestemmiavamo tutte le volte; una circumnavigata folle, da Livorno a Pietra Ligure a Treviso, fatta in 4 giorni, in cui trovammo il tempo di caricare mobili, fermarci a mangiare focaccia e a dormire da un'amica, e poi ripartire carichi come muli di oggetti e speranza verso una piana di promesse; i miei sforzi disumani per trasformarmi da umanista in ragioniera, io che coi numeri ci ho litigato da piccola e che ho sempre osservato di sbieco e con sospetto, ma che alla fine hanno sortito il loro effetto trasformandomi in una ragioniera-umanista, che forse è pure qualcosa in più.


E poi la scoperta della bicicletta. Il ferro vecchio che a Torino non potevo usare, perchè non mi avrebbe portata da nessuna parte se non al cimitero. E non come visitatrice occasionale.


La bicicletta che qui, in questa zona collinare della Toscana, equivale a spargere sudore in salite improponibili, là sulla piana si trasformava in mezzo di pieno piacere, quasi uno scivolare lieve della gomma su piste ciclabili infinite. E ogni tanto fermarsi a bere da una fontanella pubblica, che sì, son minchioni forte quando se la prendono coi culattoni e con gli extracomunitari, però quando hai sete perchè hai pedalato forte sotto il sole ti rendi conto che qualcosa di buono quei camiciari hanno fatto. Giusto questo, però. La bicicletta mi ha fatto scoprire che a primavera i viali si colorano di bianco e di fiori di tiglio, una cascata che ti resta nei capelli come i coriandoli di un carnevale fuori stagione, che annusarli è bello, e che passare in mezzo a quella catasta profumata è come essere una specie di Mosè in un mare di profumi, che ti schizzano d'intorno come due masse. E passarci in mezzo è un po' un non pensare, una di quelle cose belle che ti colpiscono alla nuca solo quando sei piccolo, perchè da grande già non le vedi più con la stessa mistica innocenza.


Mi ricordo di quando, da operai alle prese col primo lavoro capitatoci tra le mani, facevamo il turno di notte. Era un lavoro orribile, abbrutente. Io poi per questo genere di cose, ripetitive, mortali, prive di senso, non ci sono proprio portata. La mattina alle sei uscivamo dalla fabbrica, e le prime nebbie già ci spiavano da dietro i tetti. A casa, seduti nella nostra cucina, aprivamo il frigorifero e mangiavamo un toast. E nonostante da mezzanotte alle sei del mattino fossimo stati lì a spostare pezzi, nel fracasso e nella puzza della fabbrica, con la fatica del lavoro fisico ancora tutta addosso, nei capelli e attaccata ai vestiti, avevamo ancora voglia di ridere e di mangiare e di volerci bene, perchè bastava un toast ed una luce gialla -di quelle tremende da tinello,per intenderci- per farci sentire felici e a casa.


Rivedere i miei vecchi posti, perchè anche se per poco ma lo sono stati, mi ha dato un colpo di grazia. Non mi ero resa conto di poter tornare indietro e ritrovare esattamente lo stesso posto.


Il pittore, per riprodurre la realtà, si deve fare coraggio e la deve scomporre. La vita ci ha fatto un grande regalo: non abbiamo dovuto perderci nella mente, fare questo sforzo.


I nostri nomi, dopo cinque anni, erano ancora lì sul campanello. A ricordarci che questo nostro muoverci nel mondo ha lasciato una traccia.


Fino al prossimo affittuario.

Dedicata al Gig, che ogni tanto perdo per strada ma che ritrovo sempre: che resti sempre al mio fianco come l'Uomo che Guida, il cui profilo in controluce ha mille sfondi da finestrino, che mi ha spesso seguita, qualche volta preceduta, ma che più spesso è stato al passo in questa strada lunga che ci vede compagni.

Di viaggio e di vita.


domenica 3 maggio 2009

Metodo anti occhiacci

Potevamo stupirvi con effetti speciali. E invece, nisba.

"Nano, non ci si comporta così! Non si danno gli spintoni agli altri bambini, è una cosa brutta. Stai attento, che altrimenti ti faccio gli occhiacci"
E il Nano, trionfante: "Ma tatto io non ti guaddo, ah ah!"

Bene. Adesso ho finito gli escamotage coercitivo-educativi. Qualcuno ha un piano B da riciclare?