lunedì 25 maggio 2009

Compagni di viaggio. Cinque anni dopo.

Era da tanto che avevo questo buchetto nel cuore. Da cinque anni sentivo lo spiffero uscire, sapevo che ci saremmo dovuti tornare, prima o poi.




Siamo planati sulla piana veneta infinita esattamente come l'avevamo lasciata: da fidanzatini snanati (entrambi senza fede per l'occasione), con un'utilitaria risparmiosa, con pochissime cose dietro, giusto una valigia con l'indispensabile. E forse manco quello.


La piana è più o meno la stessa: qualche vigneto, un paio di ipermercati, capannoni-capannoni-capannoni, di nuovo vigneto, qualche trattore guidato da un omino minuscolo, pochi alberi e una gran calura. Quasi un plastico del Subbuteo.


Che poi questa pianura ti assassina l'anima. Specie d'estate, quando i filari si rincorrono a picco sotto il sole, e non hai neanche il conforto di un albero, ma solo quegli stecchi col pennacchio, piantati a distanza regolare, che non fanno ombra manco a piangere. E se cammini per la campagna, come qualche volta ho fatto io per riuscire a capire cosa provasse Goffredo Parise quando scriveva quelle belle pagine, ti rendi conto finalmente che la terra è tonda, e ti stupisci a pensare di che teste a pinolo sono stati gli abitanti del mondo a non accorgersene. C'è voluto un genovese con tre caravelle e un gran trabagai di roba per capirlo, e invece bastava dare un'occhiata a certe pianure sotto il sole, per capire che ad un certo punto tutto digrada dolcemente, che non c'è spigolo alla fine, ma ancora superficie.


Su questa superficie ho camminato per lungo tempo, fino a cinque anni fa.


Eravamo partiti animati dalle migliori intenzioni, scappando da una Torino che ci avvelenava coi suoi miasmi. Era l'estate del 2003.


Non avevamo nulla. Neanche il letto. Ma dormire sul pavimento di marmo della nostra casa, in quell'estate di caldo folle e di blackout non ci dava più di tanto fastidio. Il gelo delle mattonelle era la nostra consolazione.


Sono tante le cose che ho infilato in un baule, molte meno di quelle che si affastellano nella mia mente l'una sull'altra, come fascicoli di un'enciclopedia: il furgone che ci avevano prestato per il trasloco, con le sue tendine rosse a pois che davano un po' troppo nell'occhio, tanto che la polizia ci fermava di continuo scambiandoci per zingari; i viaggi fatti sotto il sole, con una radio che mangiava le cassette e contro la quale bestemmiavamo tutte le volte; una circumnavigata folle, da Livorno a Pietra Ligure a Treviso, fatta in 4 giorni, in cui trovammo il tempo di caricare mobili, fermarci a mangiare focaccia e a dormire da un'amica, e poi ripartire carichi come muli di oggetti e speranza verso una piana di promesse; i miei sforzi disumani per trasformarmi da umanista in ragioniera, io che coi numeri ci ho litigato da piccola e che ho sempre osservato di sbieco e con sospetto, ma che alla fine hanno sortito il loro effetto trasformandomi in una ragioniera-umanista, che forse è pure qualcosa in più.


E poi la scoperta della bicicletta. Il ferro vecchio che a Torino non potevo usare, perchè non mi avrebbe portata da nessuna parte se non al cimitero. E non come visitatrice occasionale.


La bicicletta che qui, in questa zona collinare della Toscana, equivale a spargere sudore in salite improponibili, là sulla piana si trasformava in mezzo di pieno piacere, quasi uno scivolare lieve della gomma su piste ciclabili infinite. E ogni tanto fermarsi a bere da una fontanella pubblica, che sì, son minchioni forte quando se la prendono coi culattoni e con gli extracomunitari, però quando hai sete perchè hai pedalato forte sotto il sole ti rendi conto che qualcosa di buono quei camiciari hanno fatto. Giusto questo, però. La bicicletta mi ha fatto scoprire che a primavera i viali si colorano di bianco e di fiori di tiglio, una cascata che ti resta nei capelli come i coriandoli di un carnevale fuori stagione, che annusarli è bello, e che passare in mezzo a quella catasta profumata è come essere una specie di Mosè in un mare di profumi, che ti schizzano d'intorno come due masse. E passarci in mezzo è un po' un non pensare, una di quelle cose belle che ti colpiscono alla nuca solo quando sei piccolo, perchè da grande già non le vedi più con la stessa mistica innocenza.


Mi ricordo di quando, da operai alle prese col primo lavoro capitatoci tra le mani, facevamo il turno di notte. Era un lavoro orribile, abbrutente. Io poi per questo genere di cose, ripetitive, mortali, prive di senso, non ci sono proprio portata. La mattina alle sei uscivamo dalla fabbrica, e le prime nebbie già ci spiavano da dietro i tetti. A casa, seduti nella nostra cucina, aprivamo il frigorifero e mangiavamo un toast. E nonostante da mezzanotte alle sei del mattino fossimo stati lì a spostare pezzi, nel fracasso e nella puzza della fabbrica, con la fatica del lavoro fisico ancora tutta addosso, nei capelli e attaccata ai vestiti, avevamo ancora voglia di ridere e di mangiare e di volerci bene, perchè bastava un toast ed una luce gialla -di quelle tremende da tinello,per intenderci- per farci sentire felici e a casa.


Rivedere i miei vecchi posti, perchè anche se per poco ma lo sono stati, mi ha dato un colpo di grazia. Non mi ero resa conto di poter tornare indietro e ritrovare esattamente lo stesso posto.


Il pittore, per riprodurre la realtà, si deve fare coraggio e la deve scomporre. La vita ci ha fatto un grande regalo: non abbiamo dovuto perderci nella mente, fare questo sforzo.


I nostri nomi, dopo cinque anni, erano ancora lì sul campanello. A ricordarci che questo nostro muoverci nel mondo ha lasciato una traccia.


Fino al prossimo affittuario.

Dedicata al Gig, che ogni tanto perdo per strada ma che ritrovo sempre: che resti sempre al mio fianco come l'Uomo che Guida, il cui profilo in controluce ha mille sfondi da finestrino, che mi ha spesso seguita, qualche volta preceduta, ma che più spesso è stato al passo in questa strada lunga che ci vede compagni.

Di viaggio e di vita.


12 commenti:

Unknown ha detto...

Si sente tanto trasporto, sai?

Se vi ricapitasse... passate dalla provincia veronese anche... c'è una pecora che è ben contenta di conoscervi ^^

P.S. Ehi, cattivona, ma nel mio blog non "passi di qua"? :P

Naoh ha detto...

!!!!
Ti adoro. E questa tua fuga è esattamente il mio sogno. Poi c'è chi fa e chi, non si sa bene perché, no...

troppi_gatti ha detto...

lupina..
che voglia che mi fai venire di caricare i miei uomini e bestie varie per cercarci un posto che ci assomigli di più..
anche se temo che si resterà qui ancora per un bel po'!

Rita ha detto...

Che tenerezza :-)

SimoSerpe ha detto...

Wow. Non serve dire altro.

Anonimo ha detto...

Hai visto che sei rimasta umanista? La ragioneria non ti ha preso l'anima e scrivi da dio! E, come dicono i francesi, chapeau Lupaina!
Biba

evacontroeva25 ha detto...

un bellissimo post :)

fiammetta ha detto...

lo sapevo! lo sapevo che dietro tanta intelligente ironia, si nascondevano vette di poeticissimo, struggente, potenziale affabulatorio.
evvai, lupi!

Giulia ha detto...

Ti ho lasciato un piccolo riconoscimento sul mio blog, spero che ti faccia piacere!

Anonimo ha detto...

stupenda!
lunetta

lerinni ha detto...

che bella dedica... che belli che siete!

Igraine ha detto...

Splendido. Da racconto, da articolo.