Cara Dottoressa, son due mesi che mi chiede di scriverle la mia esperienza di allattamento, e visto che oggi ci vedremo per il vaccino del Nano so già che me lo chiederà nuovamente. E siccome io son quella dell'ultimo minuto, adesso mi metto qua e lo faccio. Anche perchè ripercorrere questo cammino cominciato poco più di un anno fa mi può far solo bene.
Il racconto inizia con una mamma sudata e stanca, mezza ricucita e contenta, che tiene tra le braccia un bel fagotto di 3 chili e 840 grammi. Inizia anche con un babbo felice, ed una famiglia che aspettava un maschio dal 1951, dopo un'epopea di femmine che si sono avvicendate l'una dopo l'altra. Si può quindi immaginare il clima di euforia generale che ha accompagnato la venuta al mondo di mio figlio.
In mezzo a questa euforia generale c'ero io, totalmente ignara di quello che sarebbe successo.
Da nove mesi mi sentivo dire più o meno le stesse cose: se riuscirai ad allattare, se avrai la fortuna di avere latte, tu compra un biberon per sicurezza, quando poi ti andrà via il latte. Per uno strano motivo, ignoto anche a me stessa, ero sicura che non sarei riuscita ad allattare il Nano. Del resto, neanche mia madre era riuscita ad allattarmi. E non aveva allattato nemmeno mia sorella. Mia zia, idem: nessuna delle mie cugine era stata allattata al seno. Ma erano gli anni settanta, ed allora le cose erano ben diverse.
"Devi provare ad attaccare il bambino", mi son sentita dire dalle ostetriche. Ed io l'ho fatto, più o meno come mi avevano detto di fare.
Mi ha fatto un male cane. Un male pazzesco. Pensavo che col parto, il grosso del dolore fosse terminato. Non mi aspettavo una cosa del genere. Possibile che questa boccuccia di rosa e queste gengive sdentate potessero essere così tremende, a contatto col capezzolo?
Dopo il parto sei entusiasta, ed avresti voglia di mille cose, meno che di una: di provare di nuovo dolore. Però lo devi fare, altrimenti son guai.
Il Nano non ciucciava un granchè. Era molto impegnato a dormire. In più aveva l'ittero, cosa che ci ha costretti ad un ricovero più lungo, e a prendere confidenza con un mondo tutto diverso: quello della terapia neonatale. A differenza del nido, in cui le ostetriche e le infermiere erano tutte un sorriso ed un incoraggiamento e sembrava davvero di stare dentro una nuvola rosa, quelle della terapia neonatale erano creature lunari e scostanti, brusche con le mamme e coi bambini, menefreghiste e pure vagamente stronze. Ricordo che una notte, mentre stavo allattando il Nano, una di loro mi venne vicina e mi disse: "Ma non vedi che il bambino non si attacca bene? Dai retta a me, non perdere tempo con l'allattamento: dagli il biberon e via, tanto cresce lo stesso." e poi aggiunse: " con questo allattamento al seno hanno proprio rotto le scatole. Così noi ci ritroviamo le mamme tra i piedi tutto il giorno". Non si può dire una cosa del genere ad una mamma alle prime armi, specie se la vedi scoraggiata come lo ero io in quel momento. Ed è stata una fortuna che io non abbia dato retta a quelle parole ma abbia voluto fare di testa mia.
Già, perchè nonostante le ragadi che stavano arrivando e questo bambino che non ciucciava, la mia testa, o forse quell'organo che sta un pochino più giù, continuava a funzionare autonomamente. E mi diceva di non arrendermi.
La nostra grande fortuna sono state le dimissioni. Una volta a casa, le cose sono andate meglio. Anzi, devo dire che le cose hanno cominciato a marciare a ritmo pieno e soddisfacente, sebbene l'aspetto pratico della mia vita risultasse ancora piuttosto incasinato. Le ragadi, grazie ad un'amica farmacista davvero preziosa, si risolsero da sole nel giro di tre giorni.
E qualcosa in me era cambiato. Avevo cominciato a ragionare in maniera differente.
Trovarsi davanti ad un neonato che urla non è facile. La comunicazione è univoca, è solo lui che comunica con te attraverso la disperazione, e tu non hai un codice fisso per interpretarlo, ma solo qualche intuizione. Qualche volta felice, qualche volta meno. I vari libretti di istruzione in commercio, guardacaso, riguardano sempre modelli di neonato diversi dal tuo. Il tuo è generalmente molto più esigente e frignone, si offende a morte se vai a farti una doccia, ti impedisce di cenare serenamente, non vuole che tu ti allontani nemmeno per andare in bagno. Lui ti vuole lì, sempre a disposizione, con la puppa fuori e pronta all'uso.
Io ero preparatissima per affrontare un parto, che sembra il grande scoglio che incombe inesorabile, e sul quale le nostre esili gambette si devono arrampicare. Non ero preparata all'allattamento, me ne rendo conto solo adesso. Eppure ne avevo letti, di libri sull'argomento.
Lo scoglio stava tutto rannicchiato in quella culla azzurra e verdina, e pretendeva cose che io non riuscivo a capire ancora bene.
Alla fine, mi sono arresa. La volontà di un neonato è una volontà di sopravvivenza, ed è molto più forte della tua. Lui non ha infrastrutture, lui è una tabula rasa, ma certe cose le sa. Sa che dove finisce la mamma, finisce lui ed il mondo allo stesso tempo. Nel suo DNA ci son scritte cose di milioni di anni fa, che il tempo ed il progresso hanno cancellato dal nostro di adulti. Lui è più sapiente di me, perchè la natura lo ha fatto così. E allora diamogli retta, mi son detta.
Certo che dar retta ad un cosetto di quattro chili scarsi non è poi semplice. Implica una certa rassegnazione. Sei nelle sue mani, e devi aver pazienza.
La pazienza è una virtù che a me è sempre mancata. Sono sempre stata carente in tante cose, ma in questa più che in ogni altra. E la pazienza che richiede l'allattamento è davvero tanta. Io ho provato a pensare che nell'allevare un figlio è la cosa che forse è più necessaria di altre, forse persino di più della comprensione di certi suoi bisogni. Ho capito che la pazienza che ti occorre adesso per non precipitarlo giù da un balcone dopo una giornata di strilli isterici è solo la palestra di quella che ti servirà quando, ad un anno, si spalmerà il tuo antirughe da 70 euro sulla felpa nuova ( e questa cosa mi colpisce da vicino, dato che è il danno del giorno).
Noi mamme di oggi siam fatte male. Viviamo di pesi e misure, siam sempre là col centimetro in mano a misurare tutto: la grandezza della portafinestra per metterci una bella tenda, la misura delle nostre chiappe per vedere se siamo ingrassate, il conto in banca per capire se certe cose possiamo permettercele oppure no, e via dicendo. Naturalmente, misuriamo anche i nostri bambini. E siccome l'allattamento al seno è tutt'altro che una scienza esatta, va a finire sempre che un giorno nostro figlio è nervoso, lo pesiamo e scopriamo che non ha mangiato quasi nulla. E allora cominciamo a dare l'aggiunta, senza pensare che magari in quel momento non aveva fame ed ha soltanto voluto usarci come ciuccio, senza pensare che a poco a poco l'aggiunta aumenterà, il nostro latte diminuirà, e tutte quelle cassandre che avevano annunciato lutti e sciagure avranno ragione.
Insomma, non so se esiste un sistema universale da quello che ci insegnano a fare. Certo è che quando sento dire poverina non aveva più latte, il bambino non si attaccava e via dicendo, penso che sia solo mancata la pazienza, la voglia di dedicarsi a qualcosa fino in fondo. Non oso pensare che in natura tutti questi neonati non sarebbero sopravvissuti.
Sarebbe tremendo e crudele, e la Natura non è proprio così.
Quelli crudeli siamo noi, non ce ne scordiamo.